Roma è il laboratorio di Moda più bello del mondo.
Non è solo uno scenario magnifico in ogni sua prospettiva, è il luogo dove lavorano le maison di moda e le Sartorie di spettacolo più importanti e significative sia per produzione che per storia. ROMAISON racconta la Moda realizzata e conservata dalle Sartorie e Laboratori di costume: la duplice veste di Produzione e Archivio, economica e culturale, che vede sparse sul territorio dal centro alla provincia, tante storie di artigiani e di vere e proprie imprese, un tessuto che costituisce una rete naturale di quello che potrebbe essere un museo diffuso. Il rapporto fra la Moda e Il Costume è sempre stato meravigliosamente ambiguo, in una dimensione parallela di ispirazione reciproca soprattutto a Roma: la Moda frequenta le Sartorie di Costume dove trova chi sa ancora fare ancora certe lavorazioni, ma anche molte idee. Un ciclo che inizia prima perché, come pochi sanno, le Sartorie a loro volta si ispirano alla Moda, collezionano pezzi storici, costruendo Archivi straordinari dove si trovano abiti che neanche musei importanti possiedono.
E’ il luogo dove il tessuto è materia prima dell’artista, come fosse un colore o un elemento da reinventare per creare costumi capaci di evocare più che di citare. Una connotazione che nasce fin dall’inizio, grazie al legame con uno tra i più geniali costumisti italiani: Danilo Donati.
La sartoria Farani nasce all’inizio degli anni 60 a Viale Mazzini: zona strategica per la vicinanza con gli studi RAI che all’epoca producevano storici sceneggiati in costume, balletti per il varietà del sabato sera come Canzonissima e Studio 1, e molto, molto altro ancora. Prima di aprire la sua Sartoria, Piero Farani lavorava nella Sartoria Annamode, nella quale era stato introdotto da Danilo Donati, astro nascente tra i costumisti italiani, oltre ai già affermati Piero Gherardi e Piero Tosi. Erano i favolosi anni 60, gli anni del boom economico, e il nostro cinema stava attraversando l’apice di un periodo straordinario che era nato con il neorealismo e si era poi sviluppato nella commedia all’italiana.
Donati aveva appena girato “La grande guerra”, con la regia di Monicelli, e si apprestava a iniziare una collaborazione entusiasmante e continua con Pasolini; quando Farani decide di mettersi in proprio, naturalmente, si assicura l’appoggio dell’amico costumista: nasce così, nel settembre del 1962, la sartoria Farani. Donati collaborerà abitualmente anche con Fellini, Zeffirelli, e Benigni, negli ultimi anni della sua carriera. La sartoria lavora molto anche per il teatro e la lirica, nei teatri più importanti del mondo e i clienti abituali sono Ezio Frigerio, Lele Luzzati, Andrea Viotti, Mauro Pagano, Franca Squarciapino e molti altri.
Oggi, compiuti i 60 anni, la sartoria gestisce un magazzino costumi con oltre 30.000 pezzi e altrettanti cappelli, accessori, mantelli, etc. Proprio dalla collaborazione con Donati, inventore della “materia”, nasce la fama di sartoria “strana”, di sartoria che usa anche la colla e che stravolge i tessuti, cambiandone la funzione originale. L’elenco dei costumi realizzati per il cinema è lunghissimo: oltre ai 2 Oscar vinti da Donati per “Romeo e Giulietta” (1969) di Zeffirelli e per “Casanova” di Fellini (1977), ci piace ricordare “Barbarella”, uno dei primi film tratti dal mondo dei fumetti, ad essere entrato nella storia del costume. Recente è la collaborazione con Colleen Atwood, vincitrice di quattro premi Oscar per i costumi e abituale collaboratrice di Tim Burton.
Dal 1982 a Farani si affianca Luigi Piccolo, che dirige la sartoria dal 1997, anno della scomparsa del fondatore. Pur continuando la tradizione dell’invenzione delle materie, Piccolo vira verso una ricostruzione filologica del costume. A lui, dal 1997, si affianca Lina Cardone, che oggi si occupa dell’organizzazione e gestione del laboratorio artigiano. Partendo da un piccolo fondo di circa 50 pezzi che trova in sartoria, Piccolo ha collezionato, in quasi 40 anni di attività, oltre 1300 abiti autentici, che vanno dalla metà del 700 alle collezioni di alta moda degli anni 60: una collezione privata i cui abiti vengono usati, solo zed esclusivamente, per copiarne i modelli. Nella collezione privata ci sono anche riviste di moda, rigorosamente rilegate in annuari, come si faceva una volta, che vanno dal 1864 fino ai Vogue internazionali degli anni 70. Si contano inoltre più i 150 pezzi di biancheria originale, compresi bustini steccati, molta merceria autentica, 2 bauli colmi di piume da cappello, la statua di una santa sconosciuta della fine del ‘600, un ricamo double face a mano dei primi del ’700 e molto altro.
I mondi paralleli della Moda e del Cinema si fondono nella Storia di Annamode in una trama perfetta: la storia di due sorelle divise nei due livelli di una sartoria. Anna disegnava bozzetti di moda elaborando quello che suggeriva la couture parigina, Teresa lavorava con i costumisti più importanti del cinema che dagli anni 50 hanno reso l’Italia un modello di genialità. Due mondi ben divisi ma che si nutrono degli stessi strumenti in un clima di voglia di fare e condivisione tipico del dopoguerra. Così Annamode da allora incarna il dualismo fra fare un abito o un costume, un dna che continua ancora ma oggi si é concentrato nell’attività di Costume e nella cura di un Archivio enorme e prezioso n parte custodito nella Fondazione che porta il loro nome. L'atelier delle sorelle Allegri nasce nel 1946 in un'Italia che esce dalla catastrofe sociale, economica e umana della seconda guerra mondiale, grazie all'iniziativa di una elegante ragazza toscana Anna Allegri.
Quando la raggiunge a Roma la sorella minore Teresa, agli inizi degli anni '50, Annamode diventa un centro di stile e idee che combina le due attività, una che soddisfaceva le richieste sempre crescenti di eleganza delle signore dell'alta società coinvolte nel boom economico italiano, l'altra pronta a rispondere alle sempre più frequenti richieste di costumi da parte di Cinecittà.
L’atelier "esordisce" sul grande schermo realizzando gli abiti per il film "Le ragazze di Piazza di Spagna" di Luciano Emmer. Da lì, per la sartoria, inizierà una lunga collaborazione con i più grandi registi italiani, da Antonioni a Fellini passando per Vittorio de Sica. Per tutti i più grandi costumisti dell’epoca – come Piero Tosi, Milena Canonero e Maria de Matteis. Alcuni abiti entreranno di diritto nella storia del cinema: come quello stile impero di Audrey Hepburn in "Guerra e Pace", le sete sgargianti di Sophia Loren in "Matrimonio all’italiana" i costumi di Totò, Ninetto Davoli e Silvana Mangano ne "Le Streghe" che sembrano quelli di un brand di oggi, dimostrando una significativa capacità di sperimentazione. Soprattutto all’inizio passano dal cinema alla rivista, dal teatro di prosa alla lirica, senza dimenticare la televisione, dalle prime edizioni di "Canzonissima" agli storici sceneggiati. Dal 1950 Annamode ha partecipato alla realizzazione di centinaia e centinaia, tra i quali però ricordiamo "Matrimonio all’Italiana" di De Sica, "Rocco e i suoi fratelli" di Visconti, "Le Streghe" di Pasolini" "Il piccolo diavolo" di Benigni, "Marie Antoinette" di Sophia Coppola per citarne solo alcuni vestendo attrici ed attori del calibro di Liza Minnelli e Ingrid Bergman in "Ninà", Maria Schell in "Le notti bianche", Charlotte Rampling in "Il portiere di notte", Scarlett Johansson e Helen Hunt in "A good woman". L’attività continua guidata da Simone Bessi, nipote delle sorelle Allegri insieme a Marina Ridolfi e Fausto Pallottini. Il cambio generazionale ha portato uno sviluppo della struttura che la rende un modello di professionalità contemporanea, grazie all’uso di tecnologie avanzate insieme alla sartoria tradizionale. Con loro continua l’attività della Fondazione Allegri, nata nel 2010, dedicata alla conservazione e valorizzazione del patrimonio accumulato nel corso della sua storia, promuovendo iniziative ed attività culturali idonee a favorirne la conoscenza, nel mondo. Il legame con la moda riemerge nella visione dell’Archivio un patrimonio di 200 mila costumi 18 mila autentici 25 mila accessori definito: luogo dell’ispirazione.
La più antica, la Sartoria dei soldati e del clero, delle divise che diventano Costumi e Abiti costruiti trasformando la funzionalità in estetica e bellezza. Una capacità artistica eterna ancora attuale nell’abito di Liz Taylor per “Cleopatra” che arriva fino ai “Bastardi senza Gloria” di Quentin Tarantino, con le divise che sembrano moda contemporanea. Da più di un secolo é il punto di riferimento per registi e costumisti, per le divise dalle armature perfettamente ricostruite dei film storici a quelle reinventate del fantasy ma anche per storie dove la capacità artistica si avvale di quella competenza sartoriale unica. Non a caso nella sede romana, oltre a migliaia di costumi, una biblioteca tematica sulla Storia della Moda e del Costume, soprattutto per le divise militari, documenta lo studio delle tre generazioni che hanno portato avanti questo lavoro con la stessa passione. La Costumi d’Arte nasce nel 1815 circa: Angelo Pignotti, vecchio soldato Napoleonico, inizia a Firenze una piccola attività di antiquariato minore.
Fra le sue mercanzie aveva abiti della fine del seicento e ancor più del settecento che, pur non essendo oggetti di vero antiquariato, con il radicale mutare delle fogge del vestire, soprattutto dopo la Rivoluzione Francese, avevano assunto un interesse documentario di un’epoca vicina, ma distante dal nuovo modo di vivere. Le richieste di molti pittori, che si servivano di questi abiti autentici per i loro modelli per quadri di maniera, spinsero Pignotti a organizzare un’attività di noleggio vero e proprio. Alla metà del secolo, Egisto Peruzzi, che aveva sposato la figlia del Pignotti, ereditò l’attività e ne cambiò la ragione sociale in CASA D’ARTE – Firenze – non limitandosi al noleggio degli abiti autentici, ma cominciando a fabbricarne di nuovi, su richiesta e disegni di pittori e filodrammatiche. Anche i balli in maschera, molto in voga all’epoca, incrementarono tantissimo l’attività di confezione e noleggio. L’impresa si andò sempre più sviluppando con Ruggero, figlio di Egisto, anche lui fra l’altro, attore filodrammatico, che non si limitò a fornire i costumi alle compagnie filodrammatiche toscane, ma viaggiando per l’Italia, anche alle compagnie di prosa primarie.
Il figlio di Ruggero, Giuseppe, volse la sua attenzione al genere di spettacolo più grandioso dell’epoca: l’Opera Lirica. Siamo intorno al 1920 e si va formando in maniera sempre più accelerata, attraverso questi spettacoli, un cospicuo patrimonio di magazzino. Il sorgere degli stabilimenti cinematografici a Tirrenia, facilitò data la sua posizione geografica, l’inserimento della Casa d’Arte – Firenze – nelle nuove produzioni cinematografiche. Con l’ampliarsi ed il modificarsi della realizzazione di film in costume, nel 1947 Giuseppe Peruzzi decise di aprire una succursale a Roma con magazzini e laboratorio. Il figlio di Giuseppe, Ruggero, subentrato al padre, cambiò la vecchia ragione sociale nell’attuale COSTUMI D’ARTE, ed ampliò ancor più l’attività, tanto da assorbire altre sartorie, tra le quali, nel 1985 la Sartoria Teatrale S.A.F.A.S. della signora Giuditta Maggioni Roux, a cui Luchino Visconti aveva affidato la realizzazione dei costumi delle sue opere teatrali e cinematografiche. Dal 1995 l’attuale titolare, Giuseppe Peruzzi, continua l’attività dei suoi predecessori, sia nel teatro che nel cinema, forte di una tradizione ed esperienza familiare di oltre un secolo di attività.
Gabriele Pacchia, in arte Mayer, nasce nel 1940 in una famiglia di sarti teatrali. In breve tempo entra in contatto con importanti costumisti come Giulio Coltellacci, Maria De Matteis e Piero Gherardi. Con il geniale Gherardi realizza gli abiti per i film di Federico Fellini "La dolce vita", una parte di "8 e mezzo", "Giulietta degli spiriti"; con Coltellacci "Metti una sera a cena" di Giuseppe Patroni Griffi, "La Decima Vittima" di Elio Petri e Mina dei Caroselli. Collabora con costumisti come Milena Canonero, Vera Marzot, Enrico Sabatelli e ora Massimo Cantini Parrini. La collezione di Gabriele Mayer rappresenta l’Archivio grafico, quello della fase di studio del costume. Un Archivio importante, raccolto anche grazie al patrimonio dei suoi genitori, che hanno realizzato costumi per artisti come Leonor Fini, in un momento in cui a Roma la collaborazione fra menti creative andava dal cinema al teatro, alla moda e a tutte le forme artistiche. Una condivisione documentata dal disegno di Giulio Coltellacci per Anita Pallenberg in "Barbarella", il film di Roger Vadim dove i costumi sono firmati da Jacques Fonteray. Sono tutti disegni originali, dove il tratto crea un abito che è impossibile collocare nella dimensione certa del costume. La sintesi e la silhouette per l’attrice inventano personaggi che influenzeranno tutta la moda che segue. Soprattutto la mano di Giulio Coltellacci con il suo stile eclettico di costumista, scenografo, designer profondamente legato alla moda, grazie anche agli anni parigini in cui collabora con Vogue come illustratore. Sua è la prima copertina del dopoguerra. Coltellacci è una delle collaborazioni, insieme a quella con Piero Gherardi - il genio che traduceva in costumi le visioni di Federico Fellini - che danno la base stilistica a Mayer riconoscibile in tutto il suo lavoro come "Il costumista delle dive". Costumisti - Couturier "specializzati" nell’inventare e esaltare le figure femminili, sempre in sintonia con il loro personaggio ma anche con il loro essere: tante le attrici che nelle loro mani sono diventate prima muse e poi icone di stile come Florinda Bolkan, Ursula Andress, Mina, Monica Vitti. Tanto teatro e spettacolo raccontati attraverso disegni che nascono per comunicare in sartoria e oggi diventano documenti di molto altro, di collaborazioni incrociate e di sperimentazioni, di tecniche pittoriche che ne fanno vere e proprie piccole opere. Particolarmente simbolici quelli dell’archivio che Mayer distingue come "Di mia madre" realizzati da Leonor Fini e Stanislao Lepri per uno spettacolo degli anni 50 che segnava il ritorno alla rivista di Anna Magnani. Leonor Fini ha disegnato altri costumi per la Magnani, a cui fa anche un ritratto, ma oltre che per la sua affascinante vita d’artista, é legata alla moda come autrice del contenitore del profumo di Elsa Schiaparelli e come ispiratrice dell’iconico abito surrealista Skeleton. Simbolico anche lo schizzo di fine anni 40 per la pubblicità di un negozio di tessuti romano fatto da Elio Costanzi, costumista che firmerà il look delle protagoniste di film come "Boccaccio 70" e la drammatica bellezza di Sofia Loren ne "La Ciociara" di Vittorio de Sica. La documentazione di un inizio della carriera di chi si definisce artigiano, ma che con la sua tecnica straordinaria ha contribuito alla storia del costume italiano.
La parola manichino viene dal termine olandese "manneke" che significa piccolo uomo che poi si francesizza in "mannequin", le origini di questo sostituto stanno nelle riproduzioni sacre, nelle rappresentazioni di spettacoli e poi dal 1700 nella moda. Le bambole o Poupees de Mode erano per le aristocratiche, come Marie Antoinette un modo per vedere rappresentato un modello. Solo nel 1800 con il diffondersi dei "negozi" e delle vetrine compaiono i primi veri manichini, diversi da quelli usati nelle sartorie, spesso hanno volti di personaggi famosi, sono figure che vogliono attirare attenzione. Dal 1900 il manichino prende una funzionalità che determina la scelta di forme e materiali diversi, una sperimentazione che coinvolge lo studio artistico e scientifico insieme per la prima volta. Il corpo riprodotto evoca l’ortopedia ma anche la scultura anatomica, fino alle interpretazioni contemporanee che si confrontano con la produzione corrente ma anche con l’esposizione storica. Così Mensura con la sua storia di ricerca e produzione contemporanea ma anche con la sua tradizione così antica, entra nella narrazione di chi Archivia e Produce, curando il passato lavorando nel presente. Mensura realizza lo strumento fondamentale per chi crea l’abito, che sia per una persona o per un attore il manichino é il corpo con cui si confronta l’invenzione. E’ lo strumento di verifica ma anche l’immagine dell’evoluzione e del cambiamento morfologico del corpo nel tempo, basti pensare alla silhouette che dal 1800 al 1900 cambia cinque volte.
Il progetto nasce per tramandare una tecnica antica appartenente alla storia di famiglia, che ha un valore culturale e sociale. I busti sono realizzati rigorosamente a mano in carta riciclata e rivestiti in cotone. Un metodo ad oggi scomparso che resta l’unico veramente qualitativo, professionale e sostenibile. Una tradizione da mantenere perché innovativa nel suo rapporto con la manualità, l’ecologia e la sartoria. Un approccio contro ogni logica di mercato che pensa ad un prodotto realizzato in Italia, durevole nel tempo e basato sull’alta manifattura con obbiettivi che seguono sempre i valori di sostenibilità e artigianato. Nel 1950 Angele e Matteo Contesini, fondarono a Roma una delle prime aziende di "sculture per la vetrinistica". L’esperienza di una sarta e di uno scultore diede vita a prodotti dal valore artistico e manifatturiero, che si contraddistinsero sin da subito sul mercato. Diressero negli anni la ricerca verso la realizzazione di un supporto perfetto per il lavoro sartoriale: nel materiale, nel rivestimento e nelle linee. Da qui la scelta della carta pesta, del cotone e dello studio approfondito del fit. Dopo di loro, Gianluigi Contesini, prosegue dando corpo all’azienda, ampliandone i servizi e il potenziale, collabora con Accademie, Musei e grandi maison della moda e mantenendo sempre viva l’originalità e il made in Italy. Dopo circa 70 anni nasce Mensura di Priscilla Contesini la terza generazione di scultori che affonda le radici nell’arte e nell’artigianato, conserva i valori della tradizione e introduce l’innovazione digitale. Si rivolge a coloro che nutrono interesse per un prodotto che è storia, esperienza, ricerca, manualità e cura. Un progetto innovativo che combina tecnologia 3D e artigianato.
Crea l’accessorio che compare in tutte le produzioni più importanti non solo di spettacolo: i cappelli che completano in modo determinante il personaggio, come dice Steven Spielberg ringraziando Pieroni, con una lettera, per il cappello di Abramo Lincoln nel suo film. Il cappello diventa essenziale: da cattivo per i western di Sergio Leone, il tricorno del Casanova di Federico Fellini come quello di Johnny Deep ne "I Pirati dei Caraibi" e nella "Fabbrica del Cioccolato". Una storia che continua sotto lo stesso nome, in quella che é la più importante azienda italiana nella produzione di cappelli, copricapo e corazze per il cinema: punto di riferimento per l'artigianato cinematografico e non solo. Una eccellenza che deve molto oltre alla manualità straordinaria, alla attenta ricerca e ricostruzione fedele, ottenuta grazie agli archivi di forme in legno e di autentici oltre che alla produzione storica di ottanta anni.Il Fondatore Bruno Pieroni inizia giovanissimo la sua attivita’ lavorativa nel 1937 presso la Ditta Neri ,che si occupava della realizzazione dei copricapi e delle buffetterie dell’Esercito e delRegime. Il termine Buffetteria indica tutto l'insieme di borse, cinghie, giberne, cassette, foderi e altri oggetti vari in dotazione ai soldati.
La stessa Ditta comincera’ ad avere le prime commissioni in ambito cinematografico con la nascita e la produzione dei film presso gli Studi di Cinecitta’ a Roma. Uno dei primi film a cui parteciperà sarà "La corona di ferro" di Alessandro Blasetti, nel 1941. In quegli stessi anni Bruno rileverà la Ditta Neri che prenderà il nome di Ditta Pieroni Bruno. Nell’immediato dopoguerra, stringerà un proficuo rapporto di lavoro con la nascente scuola dei costumisti italiani dell’epoca tra cui Sensani, Escoffier, Novarese , De Matteis e Gherardi. Sempre nel 1949 collaborerà al film il "Principe delle volpi" d Henry King ed a molti altri progetti. Avrà l’intuito di unire dei mestieri come la modisteria, la cappelleria e la buffetteria che fino ad allora erano separati, in un unico luogo di lavoro.
Nei primi anni ’50 inizia cosi’ un rapporto lavorativo con le sartorie cine-teatrali romane, tra cui Costumi d’arte Firenze, Verter, Mayer, Safas e AnnaMode. Alla sartoria Safas nei primi anni ’60 conoscerà il Direttore Umberto Tirelli che da li’ a poco fonderà la Sartoria Tirelli a cui si legherà nella fornitura dei cappelli ed accessori. Grazie a Tirelli entrerà in contatto con una nutrita scuola di costumisti di quegli anni, uno su tutti, il Maestro Piero Tosi. Sempre in quegli anni viene alla luce la Sartoria Farani, con essa e con il costumista Danilo Donati con cui inizia un’altra solida e continua condivisione di progetti. Nei primi anni ’80 il figlio Massimo affianca il padre il quale intraprenderà un rapporto lavorativo più ingente con le produzioni e sartorie estere. Bruno Pieroni verrà a mancare nel Settembre 2001 ma grazie ad i suoi insegnamenti ed all’apporto lavorativo di sua moglie Gabriella, suo figlio Massimo e tutti i collaboratori che negli anni si sono succeduti la Ditta Pieroni prosegue no con successo, ampliando le collaborazioni alla moda oltre che allo spettacolo.
Umberto Tirelli apre la sua Sartoria a Roma nel 1964: dai primi spettacoli teatrali, già per Luchino Visconti, l’attività cresce costantemente sviluppandosi su due filoni diversi e complementari. La direzione di Pier Luigi Pizzi costellata di costumi per il teatro di prosa e lirica connotata da invenzione e fantasia e quella di Piero Tosi, dedicata di preferenza al cinema, con una capacità di ricostruzione filologica straordinaria che lo porterà a realizzare i costumi per quasi tutti i film di Visconti.
Visconti, Tosi, Franco Zeffirelli, Tirelli e altri con affinità culturali ed artistiche creano intorno alla Sartoria un vero e proprio circolo di amici e professionisti straordinari. Amici con cui condivideva le ricerche nei mercatini come nei guardaroba aristocratici, un lavoro da archeologo capace di ricostruire mondi e storie, tanto che molti dei suoi 'pezzi da collezione' arricchirono la prima mostra di moda di Diane Vreeland 'Inventive Clothes- 1919/1939' al Metropolitan Museum di New York nel 1977. Un’ identità unica che fa ancora della Sartoria un vero ambasciatore del made in Italy in tutto il mondo, grazie anche all’esperienza di comunicatore di Dino Trappetti che continua il lavoro di Tirelli, con la stessa filosofia: già socio dagli inizi della Sartoria ne prende la guida completamente alla scomparsa prematura di Umberto Tirelli, nel 1990.
Un laboratorio di lavoro e di conoscenza dove l’artigianato é alto non solo per la tradizione manuale ma anche per la capacità colta di affiancare il costumista nella fase dell’ideazione: filologi e sarti, come lo era il suo fondatore, suggeriscono soluzioni che portano all’effetto finale del capolavoro, al richiamo con riferimenti artistici pittorici che determinano la differenza con altre realizzazioni. La Sartoria ha collaborato con molti costumisti premiati con l’Oscar tra gli altri Danilo Donati per Il Casanova di Federico Fellini, Milena Canonero per 'Momenti di gloria' e 'Marie Antoinette', Teodor Pistek per 'Amadeus', Franca Squarciapino per Cyrano de Bergerac, Gabriella Pescucci per 'L'età dell’innocenza'.
La passione da collezionista ha portato Umberto Tirelli a costruire un Archivio che conta oggi più di 15.000 capi autentici, dagli inizi del 1700 ad oggi, dando il via ad una valutazione diversa dell’abito non solo come manufatto artigianale ma come vera e propria opera. Ha collaborato con Musei sia facendo donazioni contribuendo generosamente a diffondere questa cultura, sia con la produzioni di mostre in tutto il mondo. Sono numerose le donazioni, fatte ai più prestigiosi musei del mondo, fra cui spicca quella dei circa 300 abiti che costituiscono il nucleo fondamentale della Galleria del Costume del Museo degli Argenti di Palazzo Pitti a Firenze. Una attività da ricercatore e sperimentatore che porta Tirelli negli anni settanta ad acquistare più di settemila stampi per tessuti e il brevetto per riprodurli di Maria Monaci Gallenga, stilista e designer, grande sperimentatrice che nei primi anni del 1900 dona al prodotto di moda valore e dignità autonome rispetto al prodotto artistico. Aveva già intuito l’importanza della 'reinvenzione' degli archivi storici anticipando il concetto contemporaneo di rielaborazione, non solo come fenomeno di moda, ma anche come sistema di valorizzazione del patrimonio. Lo stesso intento di valorizzare i pezzi più significativi tra quelli autentici e di produzione come vere e proprie opere d’arte, porta Dino Trappetti a dare vita alla Fondazione Tirelli Trappetti nel 1986.
Le storie in mostra sono tra le più significative, ma non le uniche: abbiamo scelto tra le Sartorie di Costume e di Accessori con Archivi significativi sia per quantità che qualità. Archivi che racchiudono la loro produzione ma, soprattutto, gli autentici frutto di ricerche e donazioni che a volte diventano Fondazioni come nel casi di Tirelli e Annamode ma comunque rappresentano un patrimonio italiano che viene curato da loro. In mostra la sartoria Annamode, la Sartoria Farani, Costumi d’Arte, Tirelli Costumi, il Laboratorio Pieroni e i manichini di Mensura. I bozzetti della collezione di Gabriele Mayer rappresentano l’Archivio dei progetti: disegni di costume che sembrano di moda. A rappresentare la preziosità degli Archivi, di quelli romani soprattutto, al centro della mostra Bulgari espone i gioielli di Silvana Mangano in “Ritratto di Famiglia in un interno”. Sintesi di un incrocio artistico, artigianale e creativo che solo Roma sa generare, grazie al rapporto tra lusso, glamour e cinema. La Mostra ricrea questi ambienti dal grande Atelier dove si lavora ai tavoli si passa alle storie dove l’Archivio é posizionato a muro in strutture metalliche e la produzione esposta su pedana. Al centro: un nucleo dove il corto circuito fra Moda e Costume è rappresentato dai bozzetti e da alcune icone della bellezza fuori dai canoni, eterna perché sempre contemporanea. Il fascino di Florinda Bolkan che indossa un vero abito di Gallenga come costume, Donyale Luna nel “Satyricon”, la prima modella di colore che compare sulla copertina di Vogue nel 1966, Silvana Mangano con i gioielli di Bulgari, Jane Fonda nel celebre “Barbarella”.