Gabriele Pacchia, in arte Mayer, nasce nel 1940 in una famiglia di sarti teatrali. In breve tempo entra in contatto con importanti costumisti come Giulio Coltellacci, Maria De Matteis e Piero Gherardi. Con il geniale Gherardi realizza gli abiti per i film di Federico Fellini “La dolce vita”, una parte di “8 e mezzo”, “Giulietta degli spiriti”; con Coltellacci “Metti una sera a cena” di Giuseppe Patroni Griffi, “La Decima Vittima” di Elio Petri e Mina dei Caroselli. Collabora con costumisti come Milena Canonero, Vera Marzot, Enrico Sabatelli e ora Massimo Cantini Parrini. La collezione di Gabriele Mayer rappresenta l’Archivio grafico, quello della fase di studio del costume. Un Archivio importante, raccolto anche grazie al patrimonio dei suoi genitori, che hanno realizzato costumi per artisti come Leonor Fini, in un momento in cui a Roma la collaborazione fra menti creative andava dal cinema al teatro, alla moda e a tutte le forme artistiche. Una condivisione documentata dal disegno di Giulio Coltellacci per Anita Pallenberg in “Barbarella”, il film di Roger Vadim dove i costumi sono firmati da Jacques Fonteray. Sono tutti disegni originali, dove il tratto crea un abito che è impossibile collocare nella dimensione certa del costume. La sintesi e la silhouette per l’attrice inventano personaggi che influenzeranno tutta la moda che segue. Soprattutto la mano di Giulio Coltellacci con il suo stile eclettico di costumista, scenografo, designer profondamente legato alla moda, grazie anche agli anni parigini in cui collabora con Vogue come illustratore. Sua è la prima copertina del dopoguerra. Coltellacci è una delle collaborazioni, insieme a quella con Piero Gherardi – il genio che traduceva in costumi le visioni di Federico Fellini – che danno la base stilistica a Mayer riconoscibile in tutto il suo lavoro come “Il costumista delle dive”. Costumisti – Couturier “specializzati” nell’inventare e esaltare le figure femminili, sempre in sintonia con il loro personaggio ma anche con il loro essere: tante le attrici che nelle loro mani sono diventate prima muse e poi icone di stile come Florinda Bolkan, Ursula Andress, Mina, Monica Vitti. Tanto teatro e spettacolo raccontati attraverso disegni che nascono per comunicare in sartoria e oggi diventano documenti di molto altro, di collaborazioni incrociate e di sperimentazioni, di tecniche pittoriche che ne fanno vere e proprie piccole opere. Particolarmente simbolici quelli dell’archivio che Mayer distingue come “Di mia madre” realizzati da Leonor Fini e Stanislao Lepri per uno spettacolo degli anni 50 che segnava il ritorno alla rivista di Anna Magnani. Leonor Fini ha disegnato altri costumi per la Magnani, a cui fa anche un ritratto, ma oltre che per la sua affascinante vita d’artista, é legata alla moda come autrice del contenitore del profumo di Elsa Schiaparelli e come ispiratrice dell’iconico abito surrealista Skeleton. Simbolico anche lo schizzo di fine anni 40 per la pubblicità di un negozio di tessuti romano fatto da Elio Costanzi, costumista che firmerà il look delle protagoniste di film come “Boccaccio 70” e la drammatica bellezza di Sofia Loren ne “La Ciociara” di Vittorio de Sica. La documentazione di un inizio della carriera di chi si definisce artigiano, ma che con la sua tecnica straordinaria ha contribuito alla storia del costume italiano.